Su uno spettacolo che vorrei fare

7 Maggio 2018

Teatro in Fabula

Foglio n.6

di Giuseppe Cerrone

Bisogna prima di tutto che questo teatro sia.

Antonin Artaud. Ottobre, 1932.

Decisamente non si potrebbe sottovalutare la gigantesca
importanza che possono assumere i sogni
.

Howard P. Lovecraft, 1919.

Vacanza.

L’interdizione paterna del corpo della madre
è un passo di danza, ballo in società.

“Non toccare, toccherai”.

È apertura dei giochi, necessaria overture
ai conflitti di classe, un avvio alla lotta.

Mia materia malata di atomi ma morale
amo ancora te nei cristalli dell’elevatore.

[Ad Alessandro Paschitto, 15/02/2018]

– – –

Un uomo, una donna. Uno spazio da abitare insieme. Modificandolo. Sono ignote le ragioni di questo ménage. La loro complicità è misteriosa. Non vi sono carezze né baci. La sessualità è assente. Eppure, è evidente, si trasmettono pensieri. Si potrebbe arguire, a ragione, che questa libertà dall’amore, abbia un unico fondamento, riposi su un unico dato: l’uomo e la donna sono fratelli o fratellastri. Non è così. Non si somigliano. Semplicemente si penetrano con lo sguardo. E, come detto, coi pensieri. Parlano pochissimo. Ciò che dicono e ci dicono, è ciò che dobbiamo sapere. Sono giunti in questo posto, un loft da arredare, all’ultimo piano di un palazzo antico. Non hanno segreti. Soprattutto non ne hanno per noi. Vivono gli ambienti con raffinato edonismo. Si cullano beati, talvolta nudi. Una nudità algida, non erotica. Ci si veste per uscire, per andare al lavoro. Sono entrambi architetti, pur nella diversità delle committenze. Un solo appetito sembra attraversare la scena. Il cibo. Preparato con meticolosa lentezza. Sontuosa cerimonia da soddisfare in due. I nostri hanno letti piccoli che spesso incastrano formando il grande: è il terreno dei sogni, l’analisi comune delle fantasie. Infatti è il sogno, pazientemente elaborato, a suggerire gli arredi, il vissuto, la ricreazione. Il teatro ha questo potere: modellare esultanze diverse, felicità altre, paradisi di luce dove ogni conquista dei sensi legata al contesto, conquista onirica poi fisica, viene esibita nella sua essenza. L’accento è una pre-visione, subito placata in orgoglio. Non vi sono intemperanze. Il sesso non esiste. Singolari gli slanci gastronomici. Sì. Va ammesso. Campeggia l’amore. Difficile descriverlo. L’uomo e la donna non si corteggiano. Semplicemente stanno. Il loro stare non è senza mistero. L’intesa è affidata ai sogni che si raccontano, non alla pratica amorosa. L’intesa, una volta ancora, è affidata al piacere della macchina desiderante¹ che arreda e permuta la camera, ridefinendo ampiezze, angoli, colori. Fino a quando sopraggiunge la malattia che Artaud avrebbe chiamato la Peste². Come la malizia millenaristica della fantascienza³ sospetta e come questo spettacolo che vorrei fare mostra, qui la malattia è annunciata dal sogno. Il morbo che in ossequio ad Artaud ha il nome di Peste, appare nella fantasia onirica della donna. La Peste cioè stabilisce un legame con la vittima rivelandosi nel sonno.

Un uomo alla porta chiede di entrare. Ha sete. Non si sente bene. La donna non si fida. Non l’ha mai visto. L’uomo ha un aspetto orribile. Prima di andarsene lascia le sue referenze, facendole passare sotto l’ingresso. La donna legge. Lo sconosciuto è un anatomo-patologo; qualcosa, in laboratorio, non è andata a buon fine. Un’epidemia potrebbe scoppiare da un momento all’altro. Il sogno continua, sembra che la donna, nel riviverlo, abbia delle amnesie. Lo stesso signore della sete, malato grave, si fa vivo di nuovo. È guarito. Raggiunge la donna nello studio di architettura, la invita in clinica. Desidera procedere a dei lavori di ristrutturazione, modificare gli spogliatoi dando più intimità, dice, ai medici, indipendentemente dal sesso.

Dunque il morbo per via psichica bussa all’anima della protagonista. Il fatto non manca di inquietare. Il sogno, se ci si accorge di sognare, può essere respinto dalla coscienza, nuovamente padrona del gioco. Nondimeno la malattia, qualunque sia il processo, il suo raggio d’azione, quando si conduce nell’organismo, alligna in molti modi, sviluppa focolai, divampa in ascessi. Insomma si contrae in segni manifesti (dolorosi). Per una di quelle magie-alchimie che solo il teatro sembra conoscere (tentare), dall’irruzione del male a seguire, il loft si tramuterà in day-hospital, assisteremo quindi all’introduzione di altri personaggi. Pensate amici. Abbiamo questa donna bellissima, che nulla vieta di immaginare ricciuta, architetto, che vive la favola dell’amore col compagno-collega. I due vivono una strana unione, in cui non trova posto la sessualità, giudicata inutile. Lavorano in studi diversi. Fuori il sesso è praticato, ognuno per sé. La cosa non è motivo di astio, né costituisce racconto (rancore). Siamo in un’epoca imprecisata, nel futuro. Questa è una trama di Science-fiction, questa è la sinossi. La coppia prova una felicità imperturbabile, eretta dall’ermeneutica dei sogni, e colma di bellezza il proprio habitat che cambia di continuo secondo l’estro generoso del momento, sempre alimentato dal motore inconscio delle fantasie (rappresentazioni) notturne. I sogni non vanno rimossi. Se ne fa il resoconto⁴. (Si dorme insieme per arredare insieme). Il passo successivo è affidato all’interpretazione. Fino a quando, a questo linguaggio dell’inconscio⁵, se ne sostituisce un altro: quello della malattia. La donna, la vittima, sogna medici, corpi in putrefazione, mali senza riscatto, solitudini, abbandoni. Non è più il tempo degli specchi o delle cornici, dei tavolini Luigi XVI, delle vetrate maiolicate. Il terrore prende piede, la gioia scompare. La donna soffre. Vorrebbe guarire. Mostra i bubboni all’amico impotente. È la Peste. Non la Peste di Boccaccio e dei suoi licenziosi amici, ma un morbo incurabile che per comodità ed in omaggio ad Artaud, diciamo Peste. La patologia rimpicciolisce gli occhi, nascosti sotto lenti scure. Limita i movimenti. Costringe a letto. Deprime. Toglie appetito. Debilita. Rende secca la pelle. Brucia le mucose. Traduce lo stomaco in un forno ingovernabile, porta varici alle gambe, infezioni al naso. Ricorda la morte. È contagiosa. E se i sogni avessero il potere di curarci? – pensa il compagno. Così ci si rimette alle tenebre, al sonno. La notte rende consigli. La dimensione onirica può aprire a dati, intuizioni, preparati in grado di guarire (ancora il compagno). Questi sono pensieri plausibili da recitare in teatro. Questi sono i desideri di un teatro dell’avvenire. Questi giochi sono sviluppati da un gruppo di persone intente all’esplorazione della vita. La sintesi superiore che lo spettacolo offre, si nutre di salti temporali e logici. Questi salti vengono dal cuore e guardano ad un teatro del futuro. L’uomo vuole aiutare l’amata. Sogna per salvarla. Detta nel sonno ricette mediche. Indica nel soggiorno un vero e proprio spazio di intervento. La paziente non vada in ospedale. È troppo pericoloso. Il fisico, messo a dura prova, potrebbe contrarre altre infezioni. Piuttosto si trasformi la casa in ambulatorio, con tanto di flaconi, medicinali, provette, punture, salassi, pillole, dosaggi, polveri da sciogliere in acqua, prelievi (analisi) del sangue, delle urine. I medici visiteranno la fidanzata a domicilio.    [Ecco l’irruzione scontata di nuovi attori sulla scena del mondo]

L’architetto che non ha studiato medicina, detterà a voce alta e ad occhi chiusi, la formula chimica di un impasto curativo da stendere sulla cute dell’amata, all’altezza della colonna vertebrale, prima che il cervello, già minato, venga definitivamente compromesso. I dottori, raccolta l’informazione, studiano opportuni accorgimenti in base all’anamnesi, quindi stringono da presso i tecnici in camice bianco. L’impiastro viene realizzato. Messo immediatamente in commercio, la donna lo prova, applicato alla base del collo. Dopo alcune notti, rinasce. Una rosa si alza dal letto. Le ghiandole purulente sono sgonfie, ormai cessata l’acuta infiammazione. La prognosi infausta smentita dall’attività ipnotica di un non scienziato. Quando questi si sveglia, nulla sa degli ordini elargiti durante il sonno. Eppure l’emissione è quella di un profeta. Come è possibile? Donde viene questa veggenza? Forse sorge semplicemente da un’epoca nuova, lontana nel tempo, di là da venire, quando l’uomo avrà  imparato a fondere, e nel modo più intimo possibile, l’artificio dei sogni e la bellezza della veglia, per scoprire infine che l’universo è in parte manipolabile. D’accordo, abbandonata la macchina ipnotica, il cervello del veggente non ritiene nulla, tuttavia il testimone è già passato ai dottori che sanno come utilizzare quelle informazioni. L’architetto possiede un dono che non sapeva di avere. Uno strumento reale che si accende in condizioni particolari quando la coscienza pare addormentata. Questo dono salverà l’amata unitamente alla super competenza in stato di veglia dei medici. La rappresentazione verte sul microcosmo di una civiltà evolutissima in grado di suscitare stati illuminanti di sonno artificiale gestiti con solerzia da un’equipe di scienziati di prim’ordine. Ecco: la mente di un comune architetto diviene la mente di tutti i medici passati e presenti, anche se solo per pochi istanti, nondimeno decisivi. Il nostro consulta un’immensa biblioteca alla velocità della luce e sceglie. Tornato dal viaggio, non ricorda nulla, ma i medici sanno che intanto ha scambiato sassi con oro. Il processo di cura ha inizio.

Una storia procede. Evolve tramite i sogni. Essi ordinano la direzione, profetizzano la soluzione. Rebus da cifrare, sono apportatori di saggezza. Infine aiutano a vincere⁶. In questo spettacolo che vorrei fare, il sogno non è un semplice surrogato del desiderio, ma la via regia alla felicità. Una via che passa per la crudeltà certo, però, in fondo, giunge alla Grazia. Il miracolo al termine di un percorso disperato, crudele. La Peste e la Grazia. La malattia e l’onirico. L’abiezione e il risveglio. La guarigione. Quella degli attori innanzitutto. Che si rimettono dal Teatro Mortale. Quella della regia. Che non tradisce Artaud nel ricorrere a Dreyer. E non nomino Dreyer alla leggera. I meccanismi perfetti tollerano l’ “happy-end”, non c’è dubbio. Vedi Ordet, uno dei capolavori del maestro⁷. Il teatro, la psicologia del profondo, la letteratura d’anticipazione ricorrono spesso alla condensazione, processo per il quale s’inventa molto, spiegando poco. Si evita così di appesantire. In ottica, condensare, vuol dire concentrare su un oggetto la luce di una sorgente. Proviamo di riflesso a legare, concentrandole, queste verità: il tempo futuro, i segni di origine semidivina che i sogni traducono ora come fattori di ansia, ora come stimoli positivi, la scienza medica mentalmente disposta de facto ad agire in sinergia con i poteri perturbanti ed intuitivi dell’onirico. Che cosa avremo? La scena, che potrebbe strutturarsi anche come viaggio, salto appunto nel tempo e nello spazio, snodo costituito da diverse stazioni dove magari ripristinare la frontalità (tuttavia la crisi ed il riassetto della quarta parete non sono un dogma, siamo nel campo delle ipotesi).

II

Riassumendo. Un uomo, una donna. In un’epoca imprecisata nel futuro. Intesa perfetta, telepatica. Molti sorrisi, poche parole. Tante iniziative. Architetti d’interni, modellano la loro felicità priva di smancerie. L’amore passa su sentieri poco battuti in questo lontano orizzonte aperto ai messaggi captati dai sogni. D’improvviso la donna si ammala. Si riprenderà inaspettatamente. Voi amici, sapete come. Al di là della linea, una domanda va posta. Esiste oggi un gruppo di persone disposte a praticare questo teatro superiore, dell’avvenire, della speranza? Che non ha paura della crudeltà, del rigore, dell’irrazionale, del disagio, del futuro? Noi lo crediamo. In questa fiducia riposa il nostro intervento. In questo fuoco vive il nostro lavoro.

[Forse non è rigoroso e crudele l’esercizio di un oncologo teso alla disperata ricerca di una cura per il cancro, e non è altrettanto rigorosa e maniacale sino al cesello, l’ermeneutica di Freud e dei suoi sodali, con o senza «distensioni metonimiche» da divano-letto?]

Il teatro è una porta. Vi si entra in punta di piedi. Meglio se forniti di bussola. Il secolo appena trascorso (cosa sono diciott’anni?) pone delle insidie. Noi facciamo la proposta: il rigore di Artaud, la crudeltà della regia, l’estro degli attori, la disciplina. E in appendice il cuore di Dreyer, la parola che scioglie l’Inferno, che scalda, che porta disgelo. Che nutre speranze. Che forma foreste.

III

Ci si chiederà, saggiamente, come questa pulsionalità libidica trasferita alla casa, possa essere attuata in teatro. La risposta è fin troppo semplice. Col gioco attoriale, naturalmente. L’uomo e la donna parleranno d’altro ma intanto costruiranno la scena, la monteranno dal vivo. Opereranno con viti, bulloni, parati, legno, ripiani in un disegno incessante di arredo suggerito dai messaggi onirici sempre da interpretare e poi completare nel fatto vero e crudo del teatro. Dell’azione. Si tratterà di vivere una sorta di rivoluzione permanente, modificando continuamente le scelte di volta in volta raggiunte. Ecco che l’uomo contribuirà con un vaso, la donna con un fiore, l’uomo ritornerà su quel tavolino, la donna su quella cornice, e quindi foto, vernici, tappeti, anche sui muri, magari d’inverno quando “il lampadario sarà forte, amica mia”. Si diceva, tutto questo parlando d’altro, oppure, forse, in silenzio. Forse. “Amore? Ho sognato una tartaruga. E se ci fosse ancora un metro quadro per il nostro giardino artificiale in miniatura? Guarda che nel sogno la tartaruga divorava l’insalata per nascondersi in una buca da golf mentre tu curavi il prato nel solarium”. La macchina desiderante si inceppa quando interviene la Peste. La donna sta male. Il suo cuore, la sua testa non sono più aperti verso l’Alto. Smette di sognare. O meglio, tace sulle sue produzioni notturne che sono di morte. Questo tacere è già un rivelare a metà, una silente confessione di resa. “Ma no, non è vero, c’è speranza finché il mio uomo sta bene”, dice. La speranza è affidata ai sogni del compagno. Essi captano messaggi che guideranno l’amata e i medici nella direzione corretta, ossia la salvezza dalla morte prematura, la guarigione. La donna è recuperata. L’onirico fornisce istruzioni ai dottori che operano di buona lena. Il miracolo si compie. Ed è il miracolo del teatro (finzione). Quando questo miracolo si realizza, la vita è magistralmente doppiata sulla scena secondo un rigore esemplare che ricorda quello dei santi, degli scienziati. È il doppio evocato da Artaud, crudele perché rigoroso, schermo essenziale⁸. Noteremo e cureremo un collettivo di giovani che sia capace di tanto, nella salvaguardia dell’essere. Ora, senza retorica, lavoriamo.

A Rebecca Braglia. In memoriam.

Note

¹Alessandro Fontana, Introduzione a L’anti-Edipo di Deleuze e Guattari, Einaudi, 1975. Stimolanti le pagine XIII-XVI sulle classiche funzioni di discorso in Occidente: Verità, Potere, Desiderio.

²Antonin Artaud, Il teatro e il suo doppio. Einaudi, 1968.

³Emmanuel Carrère, Io sono vivo, voi siete morti. Un viaggio nella mente di Philip K. Dick, Hobby & Work, 2006. Dal discorso pronunciato da P. K. Dick a Metz, il 24 settembre 1977: “Un sacco di gente sostiene di ricordarsi delle vite antecedenti; io sostengo, invece, di ricordarmi di un’altra vita presente”.

⁴Ci si sveglia nel cuore della notte, si scrive per non dimenticare. Al mattino, il confronto. Non si esclude un ritorno alla scrittura dopo l’analisi delle rispettive stesure. Quindi l’azione. In estrema sintesi, se l’origine è il sogno, il fine è il dominio dello spazio da abitare, mutatis mutandis, la conquista della felicità(scena).

⁵Così Lacan, nel suo seminario sull’etica della psicoanalisi: “Freud osserva da qualche parte che se la psicoanalisi ha potuto suscitare l’inquietudine di qualcuno, nel promuovere fino all’eccesso il regno degli istinti, essa ha però anche promosso l’importanza dell’istanza morale. È una verità evidente – che ci viene quotidianamente confermata dalla nostra esperienza pratica”. Jacques Lacan, Il Seminario. Libro VII. Einaudi, 1994. La citazione si trova a pagina 71. Difficile contrapporre ad un’architettura del piacere, come quella inseguita, perpetrata ed agita dai protagonisti di questo spettacolo virtuale, un’architettura della morte, della stasi, della tomba. Difficile opporre al movimento felice della vita, alle sue liete deviazioni alla ricerca dell’”oggetto”, il dolore della pietra. Difficile ma non impossibile per il teatro. La donna si ammala, soffre, dispera di trovarsi, non vede possibilità di movimento nella malattia. Il principio di piacere che regola la ricerca della “cosa”, che regola la vita, si arresta. L’istanza libidica condivisa dal compagno conosce i dispiaceri infiniti della terapia. La camera di luce diventa ospedale, luogo di sventura, capolinea. Fortunatamente, la donna sarà salvata dai sogni dell’amato capaci di guidare per il meglio i medici in quest’epoca imprecisata e lontana in cui l’intuizione è al servizio della scienza. Amo Lacan, la capacità del filosofo francese di promuovere l’importanza dell’etica nella legittima costruzione di progetti condivisi, siano essi artistici o semplicemente estetici. Ed è chiaro come, in questa sede, i due piani si tocchino. Inevitabile un pensiero a Caravaggio, assai sensibile al fascino della morale, al richiamo dell’etica.

⁶Come nel caso di Edgar Cayce, mirabilmente illustrato da Pauwels & Bergier nel Mattino dei Maghi, Mondadori, 1963. Pagine 452-455.

⁷Paul Schrader, Il Trascendente nel Cinema. Ozu, Bresson, Dreyer. Donzelli Editore, 2002. Artaud lavorò con Dreyer nella Passione di Giovanna D’arco. Fu il monaco confessore Massieu. Per quanto concerne Ordet, capolavoro sonoro a differenza della Passione che risale all’epoca del muto, il già citato Schrader, in particolare le pagine 114-118. Degno di plauso anche Pier Giorgio Tone, Carl Theodor Dreyer. Il castoro cinema, La Nuova Italia, 1978. Davvero bella l’analisi di Ordet, pagine 87-95.

⁸”Come accadde? È impossibile descriverlo; fu il frutto di una comunicazione diretta stabilitasi tra i presenti. Un fenomeno che alcuni teatri definiscono magia, altri scienza; ma è la stessa cosa. Un’idea invisibile era stata rappresentata nel modo giusto”. Peter Brook, Lo Spazio Vuoto, Bulzoni Editore, 1998, pagine 61-62. A Brook e alle conferenze raccolte in questa pubblicazione, si deve la celebre definizione di Teatro Mortale. Un monito a non cadervi, il suo racconto.

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