Leggi “Napoli”, suona “Mondo”

Concerto-spettacolo

Una produzione Fondazione Pietà de’ Turchini

in collaborazione con Teatro in Fabula

nell’ambito del bando di valorizzazione partecipata della Reggia di Caserta, con lo scopo di affermare il ruolo del Museo di officina culturale e creativa, luogo di costruzione culturale sulla base di progettualità condivise

testo e regia di Antonio Piccolo

clavicembalo e direzione: Stefano Demicheli

programma musicale:
Josef Mysliveček – Sinfonia in la maggiore op. 2 n. 4 (Allegro, Andante, Presto)
Joseph Schuster, Giuseppe Pagliuca de Paleari – Creso in Media («Meroe infedel si dice»)
Ignaz Joseph Pleyel, da Apostolo Zeno – Ifigenia in Aulide («Se ti consiglia amore»)
Christoph W. Gluck, Pietro Metastasio – La Clemenza di Tito («Io sento che in petto»)
Josef Mysliveček, Pietro Metastasio – Artaserse («Per pietà bell’idol mio»)
Johann C. Bach, Pietro Metastasio – Catone in Utica («Nacqui negli affanni in seno»)
Johann A. Hasse, Pietro Metastasio – La Clemenza di Tito («Se mai senti spirarti sul volto»)

con Melissa Di Genova e Antonio Piccolo

con Marie Lys, soprano

con Ensemble Talenti Vulcanici
(Maria Grokhotova, Ayako Watanabe, Azusa Onishi, Stefano Gerard, Isabel Soteras Valenti, Valentina Russo, Andrea Beatriz Lizarraga
Veronica Berardi, violini
Gianni De Rosa, Elena Gelmi, viole
Marco Ceccato, Marius Malanetchi, violoncelli
Giorgio Sanvito, contrabbasso)

consulenza musicologica: Paologiovanni Maione
trascrizioni a cura di Pier Carmine Garzillo, Valentina Cucinotta
costumi: Federica Del Gaudio
foto di scena: Alessia Della Ragione

debutto:
15 ottobre 2022: Reggia di Caserta

Note di sala

Nel corso del Settecento la capitale del meridione d’Italia accoglie un gran numero di compositori “forestieri” che giungono per perfezionare il proprio “mestiere” ma soprattutto per conoscere i “segreti” di un’arte sopraffina che aveva asservito l’Europa intera. Sono artisti alla ricerca di un’identità “napoletana” capace di aprire le porte dei grandi centri musicali internazionali, il celebre Hasse, nel corso del suo noviziato partenopeo, lesinò più d’una volta la possibilità di fregiarsi come “maestro di cappella” di Palazzo affinché gli venisse riconosciuta un’appartenenza da “spendere” fruttuosamente all’interno dell’esigente mercato dello spettacolo. Il Sassone, appena ricevuto l’incarico di “maestro soprannumerario senza soldo” della Real Cappella, esibì con fierezza l’appartenenza alla grande comunità baciata dalla sirena fregiandosi “napoletano” alla prima occasione: arruolato a Venezia ostentò l’incarico con orgoglio partecipando così al grande esercito degli artisti fiorito all’ombra del Vesuvio.

Eppure la tellurica città non mostro mai una chiusura nei confronti dei musicisti stranieri, sia italiani che d’oltralpe, accogliendoli con generosità su quelle invidiate tavole del Teatro di San Carlo o presso quegli abbaglianti circuiti aristocratici forieri di intense attività culturali. Non è da escludere la loro presenza grazie a quell’intensa attività diplomatica che aveva grande interesse a promuovere le proprie maestranze sull’ambita piazza, diversi autori sono al centro di vere e proprie strategie artistico-politiche finalizzate a consolidare patti e alleanze.

Ancora una volta Hasse offre un esempio luminoso nell’inarrestabile volontà di Maria Amalia di Sassonia di averlo a Napoli, lei che nella sua infanzia si era beata del magistero del maestro nel palazzo avito. Le insistenze della regina si riflettono nelle carte delle ambasciate nel corso degli anni per avere tutte le nuove partiture dell’amato compositore e nel cercare di scritturarlo per Napoli. Il suo sogno si avvererà proprio in concomitanza con l’ascesa al trono di Spagna, a fianco del marito Carlo di Borbone, nel 1759 allorquando il sipario si alza sulla messinscena della nuova intonazione de La clemenza di Tito.

Nella seconda metà del secolo dei lumi si intensificano le presenze di artisti formatisi in altre latitudini – seppure la “cifra” partenopea di sicuro non era rimasta esclusa dal percorso didattico – va intensificandosi e il sipario del teatro regio si apre più volte su produzioni firmate da musicisti europei. Johann Adolf Hasse (Demofoonte 1758; La clemenza di Tito 1759; Achille in Sciro 1759), Christoph Willibald Gluck (La clemenza di Tito 1752),Johann Christian Bach (Catone in Utica 1761; Alessandro nelle Indie 1762), Josef Mysliveček (Romolo ed Ersilia 1733; Artaserse 1774; Demofoonte 1775; Ezio 1775; La Calliroe 1778; L’Olimpiade 1778; Isacco figura del redentore 1779; Demetrio 1779), Joseph Schuster (Didone abbandonata 1776; Creso in Media 1779; Amore e Psiche 1780), Vicente Martín y Soler (Ifigenia in Aulide 1779; L’Ipermestra 1780 e diversi balli), Johann Franz Xaver Sterkel (Il Farnace 1782), Ignaz Pleyel (Ifigenia in Aulide 1785), Pëtr Alekseevič Skokov (Il Rinaldo 1788), Peter Winter (Antigona 1791), Friedrich Heinrich Himmel (La morte di Semiramide 1795) si cimentano in allestimenti importanti destinati talvolta a segnare capitoli determinanti delle loro carriere.

E saranno proprio le pagine di questi autori a comporre il programma di questa sera destinato a mostrare le “molte” voci di cui si alimentava la scena cittadina. Non solo i grandi nomi generati dalla grande tradizione dei conservatori locali, ma anche quegli autori capaci di tracciare un disegno musicale “altro” – ma fino a che punto ciò sia vero, si scoprirà in fase esecutiva! – capace di suggestionare le penne “locali”. Altresì sarà anche possibile riscontrare il forte ascendente “napoletano” nei “linguaggi” adottati da questa blasonata troupe alla conquista dellamusicalissima città. Tra eroi di matrice metastasiana e figure protese verso le nuove istanze drammatiche si consumava una pagina affascinante del teatro del diciottesimo secolo in quell’incontro tra “artigiani” di rara bravura. Non vanno dimenticati in questo flusso “migratorio” quelle figure che pur non calcando il palcoscenico giunsero a Napoli accolte da un’aristocrazia sempre attenta alle arti e alle nuove frontiere come Wolfgang Amadeus Mozart o François Hippolyte Barthélemon.

Paologiovanni Maione

Note dell’autore

Nel 1974 Radio Rai lanciò un programma che sarebbe diventato di culto: “Le interviste impossibili”. Cosa succedeva? Autori dal calibro di Arbasino, Camilleri, Eco, Manganelli, Sanguineti immaginavano di poter intervistare personaggi illustri del passato, da Giovanna D’Arco a Robespierre, da Mozart ad Oscar Wilde, passando per Cleopatra e Freud, interpretati a loro volta da grandi interpreti come Carmelo Bene, Marisa Fabbri, Paolo Poli, Milena Vukotic, Paolo Bonacelli, e altri. (Per fortuna, grazie alla rete, tutto questo materiale prezioso oggi si può riascoltare con facilità).

Dunque, quando la Fondazione Pietà dei Turchini mi ha sollecitato a scrivere qualcosa sul Settecento Napoletano, ho ripassato vicende che già sapevo; approfondito eventi che conoscevo solo in superficie; ma soprattutto imparato tanto di nuovo e di sorprendente. Mi sono imbattuto in personaggi di statura e di spessore notevoli, non solo storicamente, ma anche teatralmente: dal Principe di Sansevero, che vedevo come uno scienziato geniale e un po’ pazzo, a Charles Burney, primo grande storico della musica, che immaginavo come un elegantone spiritoso che si scambiava battute con i posteggiatori dei vicoli di Napoli. E poi Maria Carolina, Lady Hamilton, tutti i compositori italiani e forestieri di passaggio al Teatro dei Fiorentini e al San Carlo. Di figura in figura, è stato spontaneo ricalcare – come un nano sulle spalle di giganti – le orme già solcate da quei grandi artisti in quella splendida trasmissione radiofonica di cui sopra. Nella mia testa, incontravo ognuno di questi tipi e chiacchieravo con loro, stupiti ma non troppo di aver di fronte un uomo con l’onniscienza e lo spirito del XXI secolo.

Ebbene, per l’affondo finale ho iniziato a pensare ad Eleonora Pimentel Fonseca. Un’antica passione liceale. Una donna d’avanguardia in una città d’avanguardia, come dimostrano le conquiste di quegli anni in ogni campo. Unica donna – ascoltata e rispettata – in un contesto in cui, come d’abitudine, la facevano da padrone gli uomini. La scintilla decisiva l’ho avuta quando ho trovato notizia della Cantata per Caterina II di Russia, da lei composta nel 1781, forse eseguita al San Carlo e forse musicata da Paisiello (dico “forse” perché non tutto ci è rimasto dei repubblicani napoletani, a causa della successiva damnatio memoriae monarchica: gli spettatori mi perdoneranno alcune licenze e libertà poetiche?).

Soltanto a scrittura terminata mi sono reso conto che Eleonora ha in comune con i compositori proposti in concerto dalla Fondazione una fondamentale caratteristica: è una straniera che si sente ormai napoletana, una straniera che prende da Napoli e dà a Napoli in egual misura, una straniera che non si rende conto più d’esser tale, perché nel suo mondo delle idee illuministe così come negli spartiti non c’è spazio per steccati o frontiere di alcun genere. Una sorpresa? Solo in parte. Perché in quella Napoli, così capitale, così internazionale, niente di più facile che potesse accadere questo. E poi perché, come dice un aforisma a me caro, l’opera ne sa più dell’autore. Anzi. Mai come in questa occasione mi sembra opportuno scriverlo con una maiuscola in più: l’Opera (!) ne sa più dell’autore.