Foglio n.14
di Antonio Piccolo *
«Mia carissima Fanny,
sei proprio unica e irresistibile. (…) Che lettere mi hai mandato di recente, che spasso! Un’impareggiabile descrizione del piccolo strambo cuore che ti ritrovi! Una tenera dimostrazione dei poteri dell’immaginazione. (…) Che strana che sei! Sempre, sempre perfettamente naturale, inconfondibilmente te stessa eppure così simile agli altri! Che privilegio per me poterti conoscere tanto intimamente. Non puoi sapere la gioia che mi provoca possedere un’immagine così trasparente del tuo cuore. Il giorno del tuo matrimonio molto sarà perduto. Da nubile sei piacevolissima, e piacevolissima come nipote. Ti odierò quando il delizioso gioco della tua mente si placherà nella quiete degli affetti materni e coniugali. (…) Lui ti avrà. Già ti vedo sull’altare. (…) Non credere che io sia mossa da qualche fondata obiezione, ormai mi va quasi a genio. (…) Semplicemente non mi piace l’idea che tu sposi qualcuno. E al contempo ti auguro di sposarti, perché so che altrimenti non sarai mai felice; ma la perdita di Fanny Knight nessuno me la potrà ripagare. La mia “affezionata nipote signora Wildman” non sarà che un misero surrogato».
Jane Austen, lettera alla nipote Fanny Knight, febbraio 1817.
Non so se qualche studioso abbia mai avvertito, come me, le affinità che questa nipote ed Elizabeth Bennet, protagonista di «Pride and Prejudice», sembrano avere agli occhi di Jane Austen. Senz’altro, si è sempre creduto che in Elizabeth confluisse molta autobiografia della sua autrice. E in effetti tutte e tre queste donne hanno in comune un’intelligenza non solo vivace, evidente, ma anche spassosa, spiritosa, ficcante. In barba alla loro condizione economica, che le vorrebbe uno o più gradini al di sotto di una totale rispettabilità sociale, mostrano attimi di vera e propria allegria, indifferente agli sguardi altrui e, per questo, provocatoria.
“Pride and Prejudice”, pubblicato nel 1813, è mille cose. È uno dei primissimi romanzi di successo scritti da una donna. È uno spaccato storico dei costumi, dei rituali, delle etichette dell’Inghilterra a cavallo tra ‘700 e ‘800. È al contempo la narrazione delle spinte tutte interiori, intime della protagonista, che anticipano il flusso di coscienza. È un romanzo dove ci sono scene di donne con uomini, di donne con donne, ma mai di soli uomini, escludendo di fatto un punto di vista solo maschile. È un romanzo sul matrimonio, anzi sui matrimoni: di passione, di amore, di noia, di convenienza.
Ma è soprattutto un romanzo scritto bene. Sia detto e ripetuto mille volte. Non è un romanzo scritto bene per essere scritto da una donna dell’800. È un romanzo scritto bene. E basta. Ed è una cosa maledettamente importante, perché uno scrittore è la sua lingua. E come tutti i grandi scrittori e le grandi scrittrici di ogni tempo, Jane Austen ci fa credere che ciò che colpisce il lettore siano i temi, gli argomenti, i contenuti. E sì, questo è vero, ma è ormai risaputo nella semiotica che significante e significato, forma e contenuto, non hanno la distinzione netta che spesso vogliamo attribuirgli. Quei temi non ci avrebbero colpito, se scritti con parole da due soldi. Lo sappiamo bene noi attori, che corpo e voce non sono due mondi diversi, ma sono invece inquilini della stessa casa: se il corpo è giusto, la voce è giusta. I temi di «Pride and Prejudice», allora, ci colpiscono perché scritti proprio con quelle parole lì, in quell’ordine preciso. Quegli argomenti ci catturano perché hanno quel suono.Quei contenuti ci avvolgono perché hanno esattamente quella musica.
Jane Austen, a differenza di Elizabeth e Jane Bennet, a differenza di sua nipote Fanny, non si sposò mai. Forse per scelta, forse per caso. Forse non trovò, come dice papà Bennet della sua Lizzy, un uomo “all’altezza della sua intelligenza”. Forse non volle che “il delizioso gioco della sua mente si placasse nella quiete degli affetti materni e coniugali”. Jane, però, sposò la letteratura. Dopo più di duecento anni ancora celebriamo quel matrimonio, e lo celebriamo con la musica delle sue stesse parole, sull’altare del teatro. Del resto, sarebbe riuscita Jane Austen a dividere l’amore per la scrittura con qualcun altro? La lettera alla nipote Fanny finisce così:
«La tua filippica contro le quadriglie mi ha incantato. Mica male per una signora perdutamente innamorata di una sola persona! Dolce Fanny, non farti queste idee di te stessa. Non diffondere per la piazza della tua immaginazione una tanto malevole calunnia ai danni del tuo intelletto. Non diffamare la tua ragione per la sola gratificazione della tua fantasia. La tua è un’intelligenza che merita un trattamento ben più onorevole. Non sei innamorata di lui. Non lo sei mai stata per davvero.
Con tutto il mio affetto, Jane Austen».
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Quando nella primavera del 2018 Arturo Cirillo mi telefonò per discutere l’idea che io potessi scrivere l’adattamento teatrale di “Pride and Prejudice”, non ci potevo credere. Arturo Cirillo, un mio enorme, storico riferimento artistico mi chiedeva di lavorare con lui! Era un sogno, l’ennesimo, che nella mia vita si realizzava.
Tuttavia, ci rendemmo conto entrambi della difficoltà dell’operazione. Uno, non è che io parli l’inglese proprio benissimo. Due – ma forse avrei dovuto dire questa ragione per prima – “Pride and Prejudice” è un romanzo pieno di personaggi, parole e sotto-trame. Lettissimo, conosciutissimo e amatissimo per giunta. Secondo il sito contacaratteri.it, il tempo di lettura ad alta voce di “Orgoglio e pregiudizio” è di circa quattordici ore. Consideriamo che in uno spettacolo ci sono le pause, i cambi scena, le musiche. Secondo la mia opinione poi, uno spettacolo, per superare la durata di un’ora, deve avere davvero delle buone ragioni. Per superare l’ora e mezza deve avere ottime ragioni. Ma dalle due ore in poi le ragioni devono essere addirittura giganteggianti.
Dunque, innanzitutto mi do da solo il paletto della durata: due ore al massimo. Poi Cirillo mi dice quanti attori ci saranno, ossia otto. Mi metto al lavoro, con una precisa consapevolezza: da quattordici a due ore, qualche fan del romanzo ci rimarrà comunque male. Pazienza.
Quando inizio a pensare ad una nuova drammaturgia, la prima cosa che faccio – secondo l’insegnamento di uno dei miei cari maestri, ossia Massimo Maraviglia – è quello di aprire sul computer un file di scrittura chiamato “Cantiere”: un insieme di materiali strumentali molto vari -fatto di schemi, tabelle, appunti, scalette, citazioni, immagini e molto altro – che mi servirà prima e durante la stesura del copione. Il primo dei capitoli del cantiere si chiama sempre “Domande da pórci” o, come io preferisco dire, “Domande da pòrci”.La prima domanda, necessaria, dovevo per forza di cose girarla a Cirillo: «Arturo, ma tu perché vuoi fare “Orgoglio e Pregiudizio” oggi?». Segue prima di lunghe chiacchierate, per telefono e dal vivo. Le altre domande sono: “È un libro romantico o un libro sentimentale?” | Elizabeth che libertà ha, a parte quella del pensiero?” | “Le donne hanno scelta, hanno autonomia?” | “Qual è il rapporto tra campagna e città?” | “Di quali personaggi non si può fare a meno?” | “Come e cosa riattivare del discorso sull’Orgoglio e sui Pregiudizi, nel rispetto dell’autrice?”.
Vi risparmio le risposte. Sappiate solo che le prime scene che scrivo sono un mio tentativo di riscrittura in stile goldoniano. Cirillo le scarta subito ma, grazie a quell’obbrobrio, capisce che vuole un lavoro più aderente, più fedele alla Austen. Cosa che peraltro mi trova d’accordissimo. Cosa facciamo, dunque? Via di forbici! Tagliamo personaggi, tagliamo sotto-trame, tagliamo i riferimenti temporali, tagliamo tutti i richiami english più storicizzati. Una roba molto più faticosa di quella che si può credere, perché richiede coerenza e sguardo lungo.
Poi, la parte divertente. Pensare al palco, alla recitazione, pensare al suono che avranno le parole quando prenderanno vita sulle labbra degli attori. E dunque mi metto a ritradurre tutto il materiale rimasto. C’è una citazione di Cesare Garboli, che ho imparato proprio da Cirillo, che mi fa da guida: “Io non riscrivo Molière, lo traduco nell’italiano di oggi”.
Ebbene, sbroglio i periodi complessi, quelle subordinate che in inglese suonano tanto bene, ma in italiano no; riscrivo daccapo le battute, per renderle masticabili, teatralmente masticabili; tolgo dei raccordi e ne invento altri; tante lettere e bigliettini diventano parole dal vivo; inserisco canzoni italianissime di fine ‘800 e inizio ‘900 con apparente libertà; faccio risaltare i dialoghi presenti nel romanzo a discapito dell’io narrante.
Consegno a Cirillo il copione versione 1.0. Passano mesi di lavoro serrato tra di noi, poi cominciano le prove, intensissime, a cui io presenzio per una settimana. Il testo si modifica per mano mia, per mano di Cirillo, per mano della compagnia. Si passa per la versione 1.5, 2.0, 2.5… Il copione definitivo sarà quello della versione 8.0!
A fine allestimento sento Cirillo per telefono, ha una voce un po’ incerta, mi dice: «Sì, sono abbastanza contento, però ecco, penso che se tornassi indietro non lo rifarei». Mi viene da piangere. Penso: “Ecco qua, Arturo Cirillo mi assocerà sempre al suo primo insuccesso!”. Ma il 3 luglio 2019, quando al Mercadante vedo la prova generale, ho un’opinione completamente diversa. Anche lui la cambierà presto.
Tutto ritrova un senso: la musica, gli specchi, i costumi eccessivi, le recitazioni anche un po’ diverse degli attori. Sono entusiasta. Un anno e mezzo prima, alla nostra prima telefonata, non potevo prevedere tutto questo, né Cirillo avrebbe potuto spiegarmelo, perché fa spesso prevalere l’intuizione sul freddo ragionamento. Com’è sacrosanto che sia. Era lui, e non certo io, che aveva un immaginario da sovrapporre al romanzo. Se io avessi fatto un’operazione più autoriale, di vera e propria riscrittura, sarebbe stato un pasticcione.
“Tradurre” e “tradire” hanno la stessa radice nel latino “trans”: “oltre”, “al di là”. Io poi ho anche ridotto e adattato. Un triplice tradimento che però aveva un solo scopo: la fedeltà a Jane Austen, nel senso più profondo, autoriale e spirituale. Questo “Orgoglio e Pregiudizio”, pur così italiano, così teatrale, così cirilliano, è frutto di un adattamento che ha cercato di essere quanto più rispettoso e amorevole nei confronti dell’autrice. Ho sempre scritto cercando di nascondermi dietro di lei. Ho sempre scritto con l’obiettivo che Jane, ovunque sia, avrebbe dovuto rimanerne felice. Sarà felice, Jane? Dopo aver visto lo spettacolo, qualche spettatore vorrà andare a leggere i suoi romanzi?
Dopo il debutto, un’amica e collega, che non aveva letto il romanzo né visto i film, mi ha fatto molte domande, spinta da una sensazione bellissima: che le sembrava di aver visto un testo assolutamente teatrale, una vera e propria drammaturgia, senza ombre di letterarietà. Mi ha detto che le sembrava di guardare un Molière. Forse ha esagerato, però… Io sono partito dal monito di Garboli, che parlava proprio di Molière; Molière è uno degli autori prediletti di Cirillo, che lo ha messo sempre in scena nelle traduzioni di Garboli. Insomma, il cerchio si chiude. Evviva Jane Austen, evviva il teatro.
* Discorso tenuto il 26/2/2020 al Teatro Mercadante di Napoli in occasione dello “Speciale Teatro Match: Donne e letteratura”, a cura di Gianmarco Cesario.