Chi ce lo fa fare, questo trambusto?

8 Gennaio 2018

Teatro in Fabula

Foglio n.4

di Antonio Piccolo

Eccoci di nuovo qui, su un nuovo palcoscenico (se così si può chiamare). Tra poco comincia un’altra replica del nostro spettacolo, stavolta in una scuola. Ci siamo svegliati presto, abbiamo mangiato e bevuto qualcosa di caldo, per dare una carezza alle nostre voci. Poi siamo venuti qui, abbiamo osservato lo spazio e, come ormai ci stiamo abituando, abbiamo messo subito a fuoco il da farsi: dove mettere la quinta, dove gli spettatori, cosa ci occorre, cosa dobbiamo necessariamente scaricare, di cosa possiamo fare a meno.

Scarica e suda, monta e sporcati, poi spolverati, datti una rinfrescata, cambiati, truccati. E, adesso, respira e ritrova il tuo centro, il tuo battito regolare, che altrimenti i bambini, i ragazzi, gli adulti – chiunque siano – lo sentono che fino a poco tempo fa ti preoccupavi di tante cose, che temevi di non farcela, che ancora ora, in questo momento, temi che stiano per trascorrere un’ora qualunque della loro vita, dimenticabile, se non addirittura noiosa.

Chi m’o fa’ fa’? Ogni volta me lo chiedo e non è una domanda giocosa, tanto per fare una battuta. Chi me lo fa fare?

Nelle scuole di teatro ti dicono che ogni spettacolo è diverso dall’altro, che ogni palco è diverso dall’altro, che il pubblico reagisce sempre in modo differente, che il nostro lavoro è artigianato, fatica e sudore, oltre che talento. Tutto molto bello. Ma soprattutto molto vero quando lo spazio scenico un giorno è un teatrino, un altro una pedana, o un auditorium, un androne, una palestra, un ingresso, un marciapiede, una piazza; quando gli spettatori un giorno hanno un’età e un giorno un’altra; quando nell’arco di poche ore sollevi pesi, punti luci, giri bulloni, passi dalla neve di fuori al surriscaldamento di dentro, e in mezzo ti metti anche a recitare per un’ora, con tutta l’anima e il cuore possibili.

Chi m’o fa’ fa’, questo trambusto? Perché il Teatro?

Per cambiare la società, giusto io? Per mandare messaggi a chi non me li ha mai chiesti? Per guadagnare, proprio in questo modo tra tanti? Per farmi ammirare dai miei contemporanei, che del resto ignorano qui la nostra presenza? Per farmi ricordare dai posteri, con quest’arte di sabbia?

Ecco, la sabbia. So benissimo che alla fine di questo trambusto – dopo un canto, una battuta, una risata, una lacrima di commozione – non resterà nulla, come uno splendido castelletto in riva al mare, o al fiume, o al lago. I grilli parlanti potranno ben dire, a ragione, “a che è servito?”!

“A che serve-a che serve-a che serve?… è utile-non è utile-è utile-non è utile?”… Ecco le voci dei fantasmi che ci perseguitano in ogni dove, la spirale infinita del pragmatismo che ci risucchia. Serve a imparare qualcosa? E questa cosa che hai imparato serve a trovare un lavoro? E questo lavoro serve a guadagnare? E quello che hai guadagnato serve a comprarti una casa, delle cose, metter su famiglia? E queste cose a che servono? Servono a vivere? E vivere a che serve?

“Non è vero”, ti risponde qualche collega serioso, “serve e come! Stiamo seminando!”. Vuole cambiare il mondo e gli altri, lui, prima di cambiare se stesso. Però, sulla storia del seme sento che ha ragione. Un seme lo seminiamo… in noi o negli altri? Non so… Sì, lo seminiamo. Ma per far crescere cosa? “A che serve-a che serve-a che serve?… è utile-non è utile-è utile-non è utile?”

Fai tacere i fantasmi, prendi il secchiello, prendi l’acqua e la sabbia, compatta, comprimi, spingi. Cerca il posto ideale sulla riva, progetta mentalmente, poi passa alle mani, con delicatezza e precisione. Concentrati, mettici anima e cuore, tira fuori la lingua per lo sforzo. Costruisci ponti, unisci i punti, ecco che tutto torna. Un bel castelletto. Hai imparato qualcosa? Forse, sì.

Non mi basta il mio punto d’osservazione, voglio uscire dal mio guscio di solitudine. Ehi, voi, lì: guardatelo il castelletto! Vi piace? Vi ricorda qualcosa, qualcuno? Oppure vi fa immaginare qualcos’altro? A te questo? E a te quest’altro? Ma va, che dici.. Ma ecco, ecco, siamo due, tre, dieci, cinquanta, forse di più.

Tu, sì, tu! Dammi una mano, aggiustiamo questo pezzo insieme. Ecco, bene! Abbiamo imparato qualcosa? Mah.

Ora che si fa? Ce lo portiamo a casa? Non si può. Ora aspettiamo l’onda, il riflusso, che se lo porta via. Anzi, sai che ti dico? Non mi va di aspettare: prendo il secchiello e buttiamo giù tutto insieme, tutti insieme.

Ma come! E, allora, a che è servito? È stato utile? Chi t’ha fatt’ fa’, chi te lo ha fatto fare?

Non si sa. Non lo so. Non so. Vuoi vedere che non serve? Vuoi vedere che serve a non servire? E se fosse utile all’inutile? Se fosse un’ingenua ribellione contro il pragmatismo? Un flebile respiro in barba all’angoscia? Riproviamo! Ricominciamo e vediamo…

…a che punto sarà
il prossimo “chi m’o fa’ fa’”?


Caro Antonio,
credo che il teatro sia l’arte dell’istante.
La sua ricchezza consiste nel capire che in ogni istante, grazie al teatro, posso essere altro, migliore. Se poi si trasferisce tutto questo nella vita, come allenamento essenziale, allora è il massimo.
Certo, per alcuni la vita finisce, si spegne inevitabilmente, come ogni spettacolo del resto.
Eppure se le vite personali sono finite, io credo che sia eterna la vita, quella universale, proprio come il teatro, che esiste indipendentemente dai suoi protagonisti del momento.
Naturalmente, l’eternità della vita non è un assioma, piuttosto è una precisa direzione del cuore, quella, imprescindibile, che ogni attore dovrebbe avere per non giudicare “inutile” il suo lavoro.
Insomma, ancora una volta il teatro mi appare una questione di fede, ossia di assoluta passione per l’eternità della vita, non le nostre finite esistenze, ma l’emergere di un principio stabile come l’intelligenza: l’uomo eterno, la civiltà perenne del teatro.
In fondo una catastrofe atomica non sarebbe, credo, la parola fine sull’evoluzione, ma solo la fine di un ciclo.
Forse, l’evoluzione ha bisogno di noi.
Ecco perché noi abbiamo bisogno del teatro.

Giuseppe Cerrone [9 gennaio 2018]

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