2017, l’anno in cui ho avuto successo

3 Luglio 2017

Teatro in Fabula

Ecco uno spazio di riflessione, uno spazio che ci mancava: un momento in cui fissare, a beneficio nostro e forse anche di chi ci segue, alcune delle scoperte che il nostro mestiere ci porta a fare. Teatro In Fabula inaugura con questa nota i “Quaderni di Teatro In Fabula”, con cadenza bimestrale, per poter mettere nero su bianco alcune tappe del nostro percorso, nel tentativo di essere sempre più intensi, coerenti, ma conservando anche la leggerezza necessaria al viaggio.

Foglio n.1

di Antonio Piccolo

«Per me, una canzone di successo è una canzone che rappresenta l’emozione che l’ha generata». Queste parole me le ha dette Gianmaria Testa, un cantautore che ho amato prima che fossimo in molti ad amarlo, e mi si sono scolpite nella memoria. Perché con l’idea di successo ho sempre fatto a pugni: il mondo sembra chiederti di avere successo, ma poi quelli che hanno successo spesso non ti piacciono (né come sono, né come ci arrivano). Quella frase di Gianmaria Testa, invece, costruiva un ponte: il problema non è il successo in sé, ma il successo per te.

Facciamo un passo indietro.

Pratico teatro da tredici anni, con ruoli diversi; dopo i primissimi inizi, ho preso ad essere uno che crea progetti, oltre a prendere parte a quelli degli altri. In pochissimo tempo, il mondo del teatro mi ha assorbito nel suo fitto dialogo tra registi e critici, attori ed attori, edizioni passate ed edizioni nuove dello stesso testo… Un mondo compiacentemente accartocciato su se stesso. Ci sono stati momenti anche esaltanti, soprattutto per il mio intelletto e per la mia vanità. Successo non ne ho avuto, e nemmeno denaro. Ma, come singolo artista e come Teatro In Fabula (il gruppo che intanto avevamo formato tra il 2008 e il 2010), si può dire che lo abbiamo sfiorato; o meglio, ne avevamo capito il codice, bisognava solo dosarne meglio la costanza e l’intensità.

Alt. Torniamo a bomba. Cos’è il successo in sé? Cos’è il successo per te?

Sono andato in crisi. Il teatro da cui mi sono lasciato assorbire mi aveva insegnato che “successo” è un palco grande, luci forti, scenografie imponenti, poltroncine in velluto, e soprattutto recensioni a tutto spiano, stima dei colleghi, premi della critica, menzioni a registi e attori. E il pubblico? «Non c’è». Perché? «Va educato». È maleducato? «Sì, è maleducato, per colpa dello Stato, la città, il teatro pubblico, il ministero, il sistema, la cultura, la scuola, il capitale, la televisione, la pubblicità, la pioggia, la peste, le cavallette…».

Ecco, c’eravamo quasi… Se insistiamo, abbiamo successo. Ma cos’è il successo? Questo teatro rappresenta l’emozione che l’ha generato, che ha generato il mio desiderio di fare teatro?
Ho letto recentemente una frase di Barba, a cui la diceva Grotowski, a cui la diceva Stanislavskij. (Questa sì, che è tradizione!). La frase è: “Ogni volta che le fondamenta cominciano a tremarti sotto i piedi, ogni volta che non sei più sicuro della stabilità delle tue esperienze passate, ritorna alle tue origini. (..) Ritorna alle tue origini, ritorna indietro al tuo primo giorno di teatro.

Quando penso al mio primo giorno di teatro, il mio istinto mi fa fare un’associazione particolare e forse errata, ma io mi fido del mio istinto. Non mi vedo quasi adulto che studio recitazione, no. Mi vedo bambino, forse a soli tre anni, che guardo un teatro di burattini nella piazza di Potenza, con Pulcinella, il Mago, il Diavolone. Uno spettatorino non educato al teatro in mezzo a gente di ogni età che partecipa ad un naturale rito collettivo, forse meno laico di quanto si possa pensare, e crede con tutti i sensi alle storie incarnate da quattro pupazzetti, su un teatrino con quattro assi di legno in croce. Un teatro decisamente non di successo; un pubblico decisamente poco educato.

Nel 2016 ho sentito che le fondamenta stavano tremando troppo, che le mie ultime esperienze non erano stabili, che le mie mani erano troppo pulite e troppo poco vissute. Due domande, una figlia di Eugenio Barba e una figlia di Gianmaria Testa mi rimbombavano in testa: dove sono le mie origini? Dov’è il teatro che rappresenta l’emozione che ha generato il mio desiderio di farlo?
Come Teatro In Fabula, ci siamo allora sporcati le mani; abbiamo cercato contatti e parlato in un modo che prima ritenevamo troppo sminuente per i nostri presunti talenti… Ma questa volta ci hanno capito. Educati o no, ci hanno capito.

Teatro In Fabula quest’anno ha viaggiato a testa bassa e portato il suo teatro in Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Toscana, Abruzzo, Puglia, Campania e Calabria. Con pochi mezzi e un po’ d’immaginazione, come i vecchi carrozzoni dei Comici dell’Arte. Ha messo in scena alcuni spettacoli vecchi (“Il Grigio”, “Le 95 tesi”) e molti nuovi (“Pulcinella e la scatola magica”; “Canto di Natale”; “S’ha da fare”; “All’apparir del vero”; “Le farfalle non volano nei lager”). Ha recitato per ben 4mila spettatori, di ogni età – dai 3 ai 90 anni -, in contesti più formali e contesti più informali, senza avere l’aiuto di nessuno (Stato, città, teatro pubblico, ministero etc. etc.). Ha recitato di mattina, di pomeriggio e di sera. Nei teatri, negli auditorium, nelle aule magne, negli atri, nei ristoranti, nelle case, nei cortili, nelle piazze. Ha fatto laboratori per bambini, ragazzini e ragazzi, soprattutto in periferia, spesso in condizioni molto faticose. Con uguale serietà, intensità, entusiasmo, gioia e fierezza.

Per molti, moltissimi colleghi non sarebbe possibile: per la maggior parte di loro questo modo di vivere il nostro mestiere può essere al massimo un salvadanaio, un’anticamera al “teatro vero”, quello serale, istituzionale, dei botteghini, dei camerini, delle poltroncine, delle conferenze stampa, delle recensioni, dei premi. Vediamo il teatro molto diversamente, ma non possiamo essere tutti d’accordo, no? Quello che conta per me è che una canzone, per avere successo, rappresenti l’emozione che l’ha generata. Ebbene, il successo è arrivato. Sì, ma guai ad accomodarsi. A ciò che è successo, preferisco sempre ciò che succede in questo momento. E le crisi, per fortuna, sono sempre dietro l’angolo, con conseguente ricerca delle origini. E ancora, e ancora, e ancora.

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