Il potere del conflitto nella tragedia di Antonio e Cleopatra

10 Dicembre 2010

Teatro in Fabula

Nessuna opera d’arte resiste al potere corrosivo degli anni, se non si fonda su un’idea di conflitto. Se è vero questo principio, The Tragedy of Antony and Cleopatra è il culmine della sua applicazione nell’opera shakespeariana, sia per i contenuti che per la forma.

Diversamente da alcune popolari ma piuttosto frettolose letture – che vedono la suddetta opera come la tragedia dell’amore adulto in contrasto con Romeo e Giulietta, tragedia dell’amor giovane –, Antonio e Cleopatra non può essere considerata senza fare i conti con il suo contesto storico, unico e non casuale. Infatti, che vada molto oltre una storia d’amore è ovvio; che ci sia almeno un conflitto politico anche; ma che il suo sfondo sia l’antica Roma deve necessariamente richiamare alla memoria un dato: l’impero romano è, all’epoca dell’ambientazione della trama, praticamente tutto l’universo conosciuto. Dunque, il carico di responsabilità dei suoi personaggi principali è di tutt’altro peso, così come la gravità delle conseguenze delle loro azioni. Antonio e Ottaviano sono due triumviri di Roma, ossia due dei tre pilastri del mondo; Cleopatra è la regina d’Egitto e praticamente d’Oriente.

Coerentemente con il loro valore politico e mitico, le idee di grandezza, stra-ordinarietà ed eccesso si aggirano tra le parole dei personaggi fin dall’inizio, come presenze ingombranti. L’infrazione della measure è infatti l’azione dominante dei due protagonisti, nel bene come nel male, così come senza measure sono le loro qualità e i loro difetti, agli occhi dei testimoni. Basta fare caso alle prime pagine per constatare che tipo di suggestioni figurative ricorrano per tutta la tragedia. Ecco la primissima frase dell’opera, detta dal soldato Filone parlando di Antonio:

“Nay, but this dotage of our general’s
O’erflows the measure”

“Eh, no, la frenesia del nostro generale
non ha limiti!”
(traduzione di Quasimodo, Mondadori).

All’immediato ingresso di Cleopatra e Antonio – presentato come “The triple pillar of the world”, appunto –, il loro dialogo va subito al tema suggerito:

“[Cleopatra] If it be love indeed, tell me how much.
[Antony] There’s beggary in the love that can be reckon’d.
[Cleopatra] I’ll set a bourn how far to be beloved.
[Antony] Then must thou needs find out new heaven, new earth”.

“[Cleopatra] Se mi ami davvero, dimmi quanto.
[Antonio] Amore che ha misura vale poco.
[Cleopatra] Voglio sapere fino a che punto mi ami.
[Antonio] Devi allora scoprire altri cieli, nuove terre”.

E così via. Che non si cada nell’equivoco di credere che Shakespeare faccia abitualmente uso di questo specifico tipo di figure poetiche. A dimostrazione di ciò, si veda l’operazione linguistica completamente diversa che l’autore compie per un’opera che ha molte affinità storiche e contestuali, ossia il Giulio Cesare, dove il lavoro è invece sugli schemi prosodici e retorici tradizionali.

Assodato dunque che i protagonisti si muovano in un contesto di grandezza, fedelmente rispecchiato dalla loro oratoria e dal giudizio che hanno di loro i personaggi secondari, non ci si può sottrarre ad un’altra evidenza: la gravità dei loro ruoli li circonda non solo di problemi privati, ma anche pubblici.

Per tornare al paragone iniziale, Romeo e Giulietta vivono un macro-conflitto per un solo punto: si amano e gli altri sono contro il loro amore. Non c’è dubbio che questo generi tanti altri conflitti, ma il binario principale è uno. The Tragedy of Antony and Cleopatra non è la tragedia di una passione privata invece, ma una tragedia dell’impero romano. Antonio e Cleopatra, infatti, hanno diverse sirene ad attirarli e distrarli, alcune private e altre cosmiche, tanto che sono enucleabili almeno quattro macro-conflitti: primo, il conflitto amoroso (Antonio e Cleopatra contro tutti); secondo, il conflitto etnico (Roma contro Egitto); terzo, il conflitto imperialista (i triumviri contro Pompeo); quarto, il conflitto politico (Ottaviano contro Antonio). A sottolineare la quantità di funzioni, esistono inoltre tre piani narrativi distinti – Egitto, Roma e i mari – molto seducenti per chi vi si trova: Antonio appartiene a Cleopatra ogni volta che è in Egitto, ma ogni volta che torna nei confini dell’impero prova a rinnegarla; Pompeo minaccia Roma dal mare ma, appena rimette piede sulla terraferma, pone fine ai suoi intenti senza troppi sforzi.

Anche la seduzione è dunque una linea chiave dell’opera: ci sono più passioni a tirare per la tunica i protagonisti. È chiaro che ciò metta in crisi soprattutto Antonio. L’amore senza limiti per Cleopatra non si accorda all’attrazione senza limiti per Roma: stare in Egitto dalla donna di cui è innamorato lo rende traditore della sua moglie romana e lo distoglie dalle questioni dell’impero; preferire una suddita a una romana gli fa disonore ed essere negligente come triumviro gli fa perdere la gloria faticosamente conquistata. Ma neppure il suo tentativo di tornare sulla “retta via” dei valori con cui è cresciuto riesce a soddisfarlo. Infatti, tornare a Roma vuol dire rinnegare l’Egitto, sposare la ragion di stato – in questo caso, incarnata da Ottavia, sorella di Ottaviano – e rinnegare Cleopatra in persona. Una scelta troppo dolorosa per non essere temporanea e per non essere ritrattata ancora. Insomma, Antonio è un uomo fra due mondi – geografici, culturali, erotici – e, nonostante le grandi parole che si prodigano per lui fino alla fine, appare troppo piccolo per poterli contenere entrambi, tanto da pagare con la vita la sua incapacità di attuare una rinuncia.

Ecco anche il conflitto formale di Shakespeare, in uno splendore di organicità: la grandezza dei ruoli, il linguaggio epico e le immagini ultraterrene in contrasto con la profonda umanità delle azioni.

L’altalenanza fra i due mondi produce un altro meccanismo interessante che aumenta esponenzialmente le potenzialità dei conflitti della storia. Con il continuo passaggio di Antonio da una sponda all’altra, infatti, si invertono i ruoli dei personaggi principali: seppure è una forzatura dire che Ottaviano passi dal ruolo di antagonista a quello di coprotagonista, non lo è affermare che Cleopatra, in certe fasi, è la vera e propria antagonista di Antonio. È lei, prima con la sola presenza e alla fine con la ritirata della propria flotta, a ostacolare il suo cammino e di fatto a condurlo alla sconfitta, tanto da essere oggetto del suo intermittente disprezzo. In sostanza, La tragedia di Antonio e Cleopatra è, a volte, anche la tragedia di Antonio contro Cleopatra.

Occorre notare a questo punto come le passioni contrastanti e non conciliabili conducano al fallimento anche gli altri personaggi.

Cleopatra si fa trascinare da Antonio in una guerra, quella contro Ottaviano, che avrebbe potuto non riguardarla. Non avendo motivi logici per parteciparvi, non porta fino in fondo nessuna scelta: ne prende parte, ma nel bel mezzo fugge, provocando la sconfitta propria e quella del suo amato. In bilico anche lei fra la passione erotica e la passione per il potere, si fa schiacciare delle responsabilità che non si assume. La sua confusione è protratta fino all’ultimo e, in verità, mai chiarita al lettore. Infatti, il suicidio che la accomuna ad Antonio come ultimo rigurgito di orgoglio, onore e gloria, non ha cause parimenti evidenti: lui, già militarmente sconfitto, si trafigge appena apprende la notizia (falsa) della morte di Cleopatra; lei, pur ipotizzando di uccidersi già dopo l’ultimo respiro di Antonio, si decide – alla fine dell’atto successivo – solo dopo aver avuto la conferma che Ottaviano ha intenzione di portarla come schiava in trionfo a Roma.

Enobarbo, ironico luogotenente al seguito di Antonio, prova una grande amicizia per il proprio generale e, intuendo presto il suo fatale smarrimento, cerca di persuaderlo a scegliere l’Egitto e rinunciare a Roma. Il suo intelligente punto di vista si offusca però quando vede all’orizzonte la certezza della sconfitta e la possibilità di scegliere di passare dalla parte del nemico (cioè Ottaviano, cioè Roma). Anche qui, il conflitto non pende né da una parte né dall’altra, cosicché non riesce a portare fino in fondo alcuna risoluzione: dopo un lungo tentennamento, tradisce Antonio, salvo poi il pentirsene e rimediare con il suicidio.

Lo stesso Ottaviano, che a differenza degli altri è determinato ad obbedire ad una passione più che alle altre, subisce delle ferite. La sua attrazione per il potere diverge dall’amore che ha per sua sorella Ottavia. Nonostante questo, in nome della ragion di stato, la cede in moglie ad Antonio quasi come una merce di scambio. La sua prevedibile sofferenza termina solo grazie al fatto che Antonio stesso la ripudia per tornare da Cleopatra e, dunque, il suo spirito è di nuovo riconciliato. Oltre questo, Ottaviano capisce che per lottare per ciò che vuole non può guardare in faccia a nessuno: guerreggia con Antonio, benché suo vecchio alleato contro gli assassini di Giulio Cesare; tradisce i patti con lui dopo aver sconfitto Pompeo; esclude scorrettamente Lepido dal triumvirato. Nonostante sia vincente da un punto di vista statistico, il suo animo non regge del tutto serenamente a tutto questo. Alla tanto ricercata morte di Antonio, reagisce piangendo. Una lucida spiegazione la dà Ottaviano stesso:

“The breaking of so great a thing should make
A greater crack: the round world
Should have shook lions into civil streets,
And citizens to their dens: the death of Antony
Is not a single doom; in the name lay
A moiety of the world”.

“Il crollo
di un uomo così grande non doveva fare uno strepito
più grande? La terra
avrebbe dovuto spingere i leoni nelle vie
e gli uomini delle città nelle loro tane.
La morte di Antonio non è la rovina
di un uomo solo. Il suo nome valeva la metà
del mondo”.

Si ritorna al punto di partenza: il contrasto tra ruoli così imponenti contro la realtà di uomini che, infine, sono pur sempre uomini. Il futuro imperatore – dopo aver condotto alla morte un uomo che veniva paragonato al dio Marte e poco prima di fare la stessa cosa con una regina paragonata alla dea Iside – deve fare i conti con la propria concretezza terrena. Il linguaggio iperbolico, le metafore ultraterrene, il ritmo epico dei discorsi non possono far altro che aumentare lo stridore di questa contrapposizione. Troppo evidente per non essere abilmente ricercato dall’autore.

Antonio Piccolo

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